Politica

  • OLTRE IL DELITTO MATTEOTTI

    Il Matteotti giurista e Parlamentare, contro la violenza Fascista.

    Nello sciame di violenza che portò il fascismo, uno degli esempi più noti fu l’omicidio Matteotti del 10 giugno 1924, avvenuto per mano di un gruppo di squadristi fascisti collegati al vertice di governo guidato da Mussolini. La natura abnorme di quel delitto rischia, talvolta e suo malgrado, di abbreviare in un solo punto la figura di Matteotti, militante e giurista più complesso, che il martirio civile ha culminato rivelandolo giusto in parte. Studente di diritto all’Università di Bologna, fu poi avvocato e studioso di procedura penale, oltreché politico socialista e parlamentare. Negli scritti più tecnici e negli interventi politici ricorreva il senso e la crucialità del “limite”, come presidio di garanzie e di legalità parlamentare. Contro le formulazioni normative indefinite e l’elasticità delle soluzioni ermeneutiche, Matteotti richiamava all’ordine di sistema l’esercizio discrezionale della funzione giurisdizionale del giudice, perché «è da preferirsi nelle leggi l’interpretazione più esatta e rigida e far posto alle esigenze dell’equità solo con le dovute riforme legislative». In via minoritaria per l’epoca e contro il codice di rito allora vigente, affermava la qualità di “parte” del PM, rappresentante di un interesse pubblico o collettivo, ben sostenuta dalla «divisione dei poteri su cui si fondano i moderni regimi costituzionali e la divisione delle funzioni». La sua attività d’opposizione al fascismo andava oltre l’antagonismo partitico e non si limitò al discorso che tenne il 30 maggio 1924, quando denunciò i brogli, le intimidazioni e le violenze fasciste, contestando i risultati elettorali. Matteotti rappresentava ciò che oggi è il patrimonio genetico della Repubblica italiana, connesso al valore costituzionale del Parlamento e alla legalità, che impediscono ogni forma di “giustizia privata” e di compressione illiberale dei diritti. E tanto servì a renderlo, come Sciascia fa dire al giudice di “Porte aperte”, «tra gli oppositori del fascismo, il più implacabile non perché parlava in nome del socialismo, che in quel momento era una porta aperta da cui scioltamente si entrava ed usciva, ma perché parlava in nome del diritto. Del diritto penale».  
  • 2 giugno: Festa della Repubblica

    La Repubblica Italiana

      La Repubblica Italiana nacque in seguito ai risultati del referendum istituzionale, indetto per il 2 giugno 1946 per determinare la forma di Governo a seguito della fine della seconda guerra mondiale. Per la prima volta in Italia partecipavano anche le donne a una consultazione politica nazionale: risultarono votanti circa 13 milioni di donne e 12 milioni di uomini, pari complessivamente all’89,08% degli allora 28 005 449 aventi diritto al voto. I votanti furono 24 946 878, pari circa all’89,08% degli aventi diritto al voto, che risultavano essere 28 005 449; le schede convalidate furono 23 437 207, quelle invalidate (bianche escluse) 1 509 735. Al referendum del 2 giugno le donne votarono con un’affluenza pari circa all’82%. I risultati ufficiali del referendum istituzionale furono: la Repubblica voti complessivi 12 718 641 (pari a circa il 54,27% delle schede convalidate), la Monarchia voti 10 718 502 (pari a circa il 45,73% delle schede convalidate).    Il 2 giugno 1946, insieme con la scelta sulla forma istituzionale dello Stato, i cittadini italiani elessero anche i componenti dell’Assemblea Costituente che doveva redigere la nuova carta costituzionale. Alla sua prima seduta, il 28 giugno 1946, l’Assemblea Costituente elesse a capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola, con 396 voti su 501, al primo scrutinio.   Con l’entrata in vigore della nuova Costituzione della Repubblica Italiana, il 1º gennaio 1948, De Nicola assunse per primo le funzioni di presidente della Repubblica.
  • 8 maggio 1948: la nascita del primo Parlamento della Repubblica Italiana
    L’8 maggio del 1948 segna una data fondamentale per la nostra democrazia: quel giorno si insediava ufficialmente il primo Parlamento della Repubblica Italiana, nato dalle elezioni politiche del 18 aprile dello stesso anno. Era la conclusione di un percorso iniziato con la fine della guerra e la caduta del fascismo, proseguito con la scelta repubblicana nel referendum del 2 giugno 1946 e la redazione della nuova Costituzione da parte dell’Assemblea Costituente. A succedere all’Assemblea Costituente fu l’Assemblea legislativa, organo chiamato a trasformare i principi e le promesse della Carta in atti concreti. Come ricordato dalla Camera dei deputati, “alla dichiarazione di solennità, di vita alta e nuova, succede lo sviluppo consenteaneo di tale vita“. Il primo discorso nell’aula della nuova Camera repubblicana fu pronunciato da Mario Longhena, presidente provvisorio. Longhena, socialista, intellettuale e figlio di un reduce garibaldino, fu attivo nella Resistenza e divenne padre costituente per il Partito Socialista dei Lavoratori Italiani (Psli). Quel giorno stesso fu eletto presidente della Camera Giovanni Gronchi, figura di spicco del cattolicesimo democratico e futuro Presidente della Repubblica. Questo passaggio istituzionale rappresentò molto più che un cambio di organi legislativi: fu il compimento di una stagione di rinnovamento civile, politico e morale, in cui la classe dirigente seppe affrontare il peso della ricostruzione e della rinascita democratica con spirito di servizio e visione. Polis Futura vuole ricordare oggi quell’8 maggio 1948 non solo come una data storica, ma come una fonte di ispirazione per il presente: in un’epoca di sfide complesse e spesso divisive, servono istituzioni credibili, partecipazione consapevole e una cultura politica alta, capace di unire valori, competenze e coraggio.  
  • CAPIRE IL POTERE
    *di Luigi Filippo Daniele.   “Capire il potere” di Noam Chomsky (2002) è un pugno nello stomaco, che trasmette un flusso di lucidità. Leggere “Capire il potere” non è un’esperienza neutra. È un atto di consapevolezza, uno strappo al velo della narrazione dominante. In queste pagine – trascrizioni di conferenze, interviste e dibattiti pubblici del decennio 1989-1999Chomsky non veste i panni del linguista né del filosofo, ma quelli dello storico, del testimone critico, dell’intellettuale dissidente. Il libro non è un saggio tradizionale: è un dialogo serrato tra l’autore e cittadini comuni, un confronto acceso e diretto che scava sotto la superficie delle verità ufficiali. Chomsky smonta il mito della democrazia americana, mostrando come il potere – quello vero, economico, militare, mediatico – agisca spesso in totale indipendenza dai principi costituzionali. L’America, ci dice, non è il faro della democrazia: bensì è un impero che ha ucciso milioni di persone nel mondo, spesso agendo nell’ombra o delegando la violenza a regimi compiacenti. Il giornalismo, a sua volta, è descritto come una macchina di consenso, asservita agli interessi del potere economico. “Quanti inserzionisti arabi credi che abbiamo?”: con questa domanda, un redattore del Boston Globe liquida l’ipotesi di una stampa imparziale sul conflitto israelo-palestinese. L’informazione, dice Chomsky, non è libera: è selettiva, gerarchica, funzionale al sistema. Ma qui sta la potenza del libro. Il libro che – nella sua essenza – ha il coraggio di criticare la figura stessa dell’intellettuale: non come chi usa la mente, ma come chi produce ideologia per conto dei potenti. Da qui, l’invito a una sana dose di anti-intellettualismo – non rifiuto della conoscenza, ma opposizione a chi la manipola per giustificare l’ingiustificabile. Al termine della lettura, qualcosa ci cambia intrinsecamente. Ci si sente più disillusi, più inquieti, forse più soli. Ma sicuramente più lucidi. Chomsky non offre soluzioni, ma strumenti per leggere il presente: guerre senza dichiarazione, potere senza volto, catastrofi ambientali annunciate e ignorate. È un libro che non consola, ma che sveglia dalla paralisi che addormentata la massa. Un libro che, scritto almeno 15 anni prima dell’elezione di Donald Trump, sembra averci azzeccato, sembra essere stato quasi – a tratti – profetico riguardo alla decadenza dell’egemonia democratica americana. Chomsky forse con questo libro già negli inizi del 2000 ci diceva che il Popolo ha bisogno di un risveglio collettivo.  Ed è nel risveglio che può iniziare una nuova forma di responsabilità.
  • MANI PULITE TRENT’ANNI DOPO

    L’ombra lunga di Tangentopoli sulla politica italiana. 

    Il 17 febbraio 1992, con l’arresto di Mario Chiesa, prendeva il via Mani Pulite, l’inchiesta giudiziaria che avrebbe scoperchiato il sistema di corruzione della Prima Repubblica, travolgendo i partiti storici e cambiando per sempre il rapporto tra politica, magistratura e opinione pubblica. A trent’anni di distanza, il giudizio su quella stagione resta controverso: se da un lato ha avuto il merito di smascherare un sistema diffuso di tangenti, dall’altro ha lasciato in eredità un paese con una politica più debole e una magistratura sempre più protagonista. Oggi, l’Italia non è uscita completamente dall’ombra di Tangentopoli: il dibattito politico è ancora condizionato dalla giustizia penale, il rapporto tra magistratura e potere legislativo resta teso e il giustizialismo continua a essere una forza politica trasversale. Ma è stato davvero Mani Pulite a cambiare l’Italia, o ha semplicemente rivelato una fragilità strutturale della nostra democrazia?

    Mani Pulite e la fine della Prima Repubblica

    L’Italia dei primi anni ’90 era un paese dove la corruzione era sistemica, ma anche tollerata. Le tangenti erano parte del finanziamento illecito ai partiti e il concetto stesso di tangente era spesso visto come una prassi consolidata piuttosto che come un reato. Quando i magistrati di Milano iniziarono a indagare, si trovarono di fronte a una rete di relazioni tra imprenditori e politica che coinvolgeva i principali partiti di governo. La Democrazia Cristiana e il Partito Socialista Italiano furono i più colpiti, con decine di esponenti di primo piano travolti dagli scandali. Il PSI di Bettino Craxi fu il principale bersaglio mediatico, con il leader socialista costretto alla fuga in Tunisia, dove morì in esilio nel 2000. La DC, pilastro della Prima Repubblica, si sgretolò in una diaspora di formazioni minori. I grandi partiti riformisti e di governo scomparvero nel giro di pochi anni, lasciando spazio a una nuova classe politica spesso più inesperta e priva di una visione organica del Paese.  

    L’uso politico della giustizia: il ruolo della magistratura

      Uno degli aspetti più controversi di Mani Pulite fu il ruolo giocato dalla magistratura. Il pool milanese, guidato da Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo, Gherardo Colombo e Francesco Saverio Borrelli, adottò una strategia investigativa aggressiva, basata su arresti preventivi e pressioni sugli indagati per ottenere confessioni. Il messaggio era chiaro: chi parlava, usciva di galera; chi resisteva, restava dentro. La carcerazione preventiva divenne uno strumento di pressione per far emergere nuovi nomi, creando un effetto domino che amplificò lo scandalo. Questa metodologia, seppur efficace nel breve termine, sollevò gravi dubbi sul rispetto delle garanzie costituzionali e contribuì a creare un clima di sospetto generalizzato. La magistratura assunse così un ruolo da protagonista non solo nella lotta alla corruzione, ma anche nella ridefinizione degli equilibri politici. Con la crisi della Prima Repubblica, i magistrati divennero il nuovo riferimento morale per un’opinione pubblica esasperata dagli scandali. Tuttavia, questo spostamento di potere contribuì a minare la fiducia nella politica e a rafforzare una cultura dell’antipolitica che si sarebbe radicata nei decenni successivi.  

    La crisi della politica e l’ascesa del populismo giustizialista

      L’effetto più duraturo di Mani Pulite fu la delegittimazione della politica tradizionale. La scomparsa dei partiti storici lasciò un vuoto che fu riempito da nuove formazioni politiche spesso costruite attorno a leader carismatici e all’idea di una contrapposizione netta tra “onesti” e “corrotti”.   Questo schema si è riproposto più volte nella storia recente del paese. Dalla discesa in campo di Silvio Berlusconi nel 1994, con la sua retorica contro i “comunisti” e i “magistrati politicizzati”, fino all’ascesa del Movimento 5 Stelle, che ha fatto della lotta alla “casta” il suo principale cavallo di battaglia, il giustizialismo è diventato un’arma politica efficace per conquistare consenso. lI problema è che questa impostazione ha spesso prodotto più distruzione che riforme. La lotta alla corruzione è sacrosanta, ma negli ultimi trent’anni si è assistito a una continua emergenza giudiziaria che ha impedito alla politica di costruire un sistema più trasparente e funzionante. Il risultato è stato un paese con una burocrazia paralizzata dalla paura di firmare atti, un’imprenditoria diffidente verso il settore pubblico e una politica incapace di affermare la propria autonomia rispetto ai tribunali.

    Come uscire dall’ombra di Tangentopoli

    Se c’è una lezione da imparare da Mani Pulite, è che la lotta alla corruzione non può essere affidata solo alla magistratura. La politica deve riprendersi il suo ruolo, non in senso di impunità, ma di capacità di autoriformarsi e di creare meccanismi di controllo realmente efficaci. Negli ultimi anni, la riforma della giustizia è tornata al centro del dibattito, ma con approcci spesso strumentali. Si è parlato di separazione delle carriere tra magistrati inquirenti e giudicanti, di revisione dell’abuso d’ufficio e di responsabilità civile dei magistrati, ma senza mai affrontare il nodo vero: il riequilibrio dei poteri tra politica e giustizia. Per chiudere davvero la stagione di Tangentopoli, serve una politica più responsabile e una magistratura più consapevole del suo ruolo. Il rischio, altrimenti, è quello di rimanere bloccati in un eterno presente, dove la giustizia si sostituisce alla politica e la politica delegittima se stessa in una spirale senza fine. Il vero cambiamento arriverà quando la politica tornerà a essere autorevole senza bisogno di nemici da combattere e quando la giustizia tornerà a svolgere il suo ruolo senza trasformarsi in un attore politico. Solo allora potremo dire di essere usciti davvero dall’ombra lunga di Tangentopoli.  

ECONOMIA POLITICA

IL LIBERISMO NELL’ECONOMIA

Adam Smith fu uno dei principali esponenti del liberismo economico. Nacque nel 1723 nei pressi di Edimburgo dove morì nel 1790. Diventò professore di retorica e letteratura ad Edimburgo nel 1748, dove, nel 1759 , scrisse “La Teoria dei Sentimenti Morali” un’opera di filosofia morale e nel 1776 la sua celeberrima opera “La Ricchezza delle Nazioni”.

É nella Ricchezza delle Nazioni che Smith enuncia il principio della mano invisibile del mercato : << chiunque impieghi il suo capitale per sostenere l’attività produttiva interna si sforza necessariamente di dirigere tale attività in modo tale che il suo prodotto sia il massimo possibile. Egli non intende, in genere, perseguire l’interesse pubblico, né è consapevole della misura in cui lo sta perseguendo . Egli mira solo al proprio guadagno ed è condotto da una mano invisibile a perseguire un fine che non rientra nelle sue intenzioni. Né il fatto che tale fine non rientri sempre nelle sue intenzioni è sempre un danno per la società. Perseguendo il suo interesse, egli spesso persegue l’interesse della società in modo molto più efficace di quanto intende effettivamente perseguirlo. Io non ho mai saputo che sia stato fatto molto bene da coloro che affermano di operare per la felicità pubblica>>(1)

LA TEORIA DELLA MANO INVISIBILE.

Un’ economia di mercato dunque è definita come un sistema in cui gli agenti economici, come famiglie ed imprese, decidono liberamente di comprare, per chi lavorare, cosa produrre e chi assumere liberaliter.

Nell’economia di mercato, pertanto, vi sono due principi peculiari: il primo è il principio della mano invisibile , il secondo è l’ eterogenesi dei fini. Secondo il principio della mano invisibile l’interazione sul libero mercato degli agenti economici, ciascuno è mosso soltanto dal proprio <<self interest>> e determina il massimo benessere possibile per l’intera collettività. L’ Eterogenesi dei fini enuncia il principio secondo cui il mercato risponde ad un principio d’ordine generale al di là dei fini consapevolmente perseguiti dagli agenti economici.

Secondo Smith quindi il meccanismo strumentale attraverso cui agisce la mano invisibile è il sistema dei prezzi che si formano sul libero mercato fondato sul rapporto domanda-offerta. Secondo Smith, ripercorrendo il solco della filosofia utilitaristica di Bentham, l’uomo è individualista ed egoista, l’unico fine a cui si tende è quello del massimo interesse-vantaggio personale, tuttavia, perseguendo un fine individualistico, ciò giova anche alla società indirettamente : <<Non è della benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dalla considerazione del loro personale interesse. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro amor di sé stessi e parliamo dei loro vantaggi e mai delle nostre necessità>> e ancora <<L’uomo ha quasi sempre bisogno dell’aiuto dei suoi simili e lo aspetterebbe invano dalla sola benevolenza: avrà molta più probabilità di ottenerlo rivolgendo a suo favore l’amor proprio altrui >>(2) 

 Si afferma il libero arbitrio ma le scelte individuali, pur perseguendo l’interesse personale, devono sottostare all’interesse collettivo.

Che cosa significa L’amor di se stessi?

Nella “ricchezza delle nazioni” Adam Smith parla di amor per se stessi, perché, pur dicendo che da un lato  l’uomo è un animale sociale(3), tuttavia dall’altro riconosce che il funzionamento del mercato è regolato e governato da una serie di principi che non si riducono al “self love”, ovvero diretto alla soddisfazione dei bisogni naturali. Smith distingue tra <<Social passions>> e <<Unsocial Passions>>: riguardo alle unsocial passions Smith afferma: “our symphathy is divided between the person who feels them and the person who is the object of them”, nel caso delle social passions Smith dice “our sympathy is reinforced”.

Divisione del Lavoro.

Alla divisione del lavoro Smith attribuisce un’importanza fondamentale, tanto da inserirla all’apertura del suo saggio. Non fu il primo a intuirlo, si pensi a Platone o a Menenio Agrippa ma fu il primo a sistematizzarla. Smith ritiene che la causa principale del progresso stia nelle capacità produttive del lavoro; de facto, il suo concetto di divisione del lavoro anticipa quelle che furono le correnti fordiste. Egli sostiene che la specializzazione del lavoro in tanti sotto lavori di minor difficoltà e maggior monotonia facilitino il processo produttivo in quanto evitano uno spreco dei tempi.

L’uomo è portato a fare ciò di cui è capace, cercando di ottenere dal proprio tempo il massimo consentito dalle sue capacità, affinché la sua produzione sia la maggiore possibile. In questo modo, ratione materiae, mediante il mercato, l’uomo potrà scambiare ciò che ha prodotto in tempi brevi con merci che avrebbe prodotto in più tempo. Questa è la tendenza che viene oggi amplificata dalla maggior tecnicizzazione del lavoro, determinata dal fatto che la società diventa via via più complessa ed assume nuove esigenze.

Smith prende come esempio il semplice mestiere dello spillettaio: un operaio non addestrato a questo compito e non abituato ad usare le macchine che vi si impiegano, applicandosi al massimo difficilmente riuscirà a fare uno spillo al giorno. Se, invece, un uomo trafila e il metallo, un altro raddrizza il filo ed un terzo rotaia mentre un quarto gli fa la punta ed un quinto la schiaccia l’estremità dieci persone possono arrivare a fabbricare più di 48.000 spilli al giorno. Ciascuno, in questo modo, potrebbe fabbricare 4.800 spilli al giorno grazie ad un’adeguata divisione E combinazione delle operazioni diverse.

-La moneta.

Per soddisfare i propri bisogni, ciascun soggetto non può contare semplicemente su ciò che ha prodotto ma dovrà effettuare scambi con altri lavoratori. La tendenza dell’uomo è stata quella per secoli di conservare merci che si potessero dividere e scambiare più facilmente come i metalli. Successivamente, sui metalli venne imposta una coniatura come strumento di controllo del relativo peso reale per evitare delle frodi. Questa tendenza si è protratta sino ai giorni nostri con sistemi di coniatura sempre più efficienti fino ad arrivare al sistema monetario attuale. Smith analizza dunque la quantità di moneta da utilizzare negli scambi cioè il prezzo delle merci. Esistono due tipologie di prezzo:

a)Il prezzo reale: direttamente proporzionale alla quantità in termini di tempo di lavoro impiegato Nella produzione della merce e dalla qualità e difficoltà di tale lavoro.

b)Prezzo nominale: la moneta con cui viene pagato il prodotto o il lavoro, esso dipende dal prezzo reale ma su di esso influiscono ulteriori Fattori.

Sul prezzo nominale o naturale infatti agiscono tre diverse variabili: i) il lavoro, ii)il profitto dei fondi: cioè il guadagno percepito dall’investimento dei fondi e tale fattore influirà maggiormente sul prezzo quanto Maggiore sarà il rischio assunto dall’imprenditore, ed infine iii)la rendita dalla Terra, cioè la rendita che una persona percepisce per il fatto di possedere un terreno consentendogli lo sfruttamento produttivo.

Il prezzo di mercato a sua volta è determinato dalla domanda del prodotto in vendita, secondo la legge secondo cui se la domanda supera l’offerta il prezzo si alza ma se l’offerta supera la domanda il prezzo si abbassa. Il prezzo, pertanto, secondo Smith, tende naturalmente a stabilizzarsi sul valore naturale: infatti se si abbassa il prezzo di mercato si avranno dei tagli netti negli investimenti e nel lavoro che faranno diminuire l’offerta, ma se si alza il prezzo del mercato ci saranno nuove persone che eseguiranno il lavoro per produrre tale merce e di conseguenza aumenterà l’offerta.

IL COMMERCIO INTERNAZIONALE E LIBERO SCAMBIO.

Il sistema del commercio ha una particolare caratteristica che permette un grande beneficio, ovvero il fatto che questo permette ad un paese di importare ciò che manca per soddisfare i propri bisogni e di esportare ciò che non trova sbocco nel mercato interno. Per mezzo del commercio, dunque, è possibile uno sviluppo di attività al massimo livello ove le merci prodotte superino la richiesta del mercato interno.

Il commercio internazionale e il libero scambio comportano ad un incremento dei profitti e ad un aumento della ricchezza delle nazioni, ad esempio, la scoperta dell’America ha arricchito l’Europa non per l’importazione dei metalli preziosi ma per l’ampliamento dei mercati. Per quanto riguarda le restrizioni alle importazioni delle merci che si possono produrre nel paese, tali restrizioni possono portare potenzialmente ad un beneficio diretto delle attività di produzione nazionale.

Tali restrizioni alle importazioni tuttavia alterano il funzionamento della mano invisibile e interferiscono con le leggi naturali del mercato, quella che venne definita lex mercatorum, determinando due effetti negativi: è conveniente produrre una merce con mezzi propri se il costo dell’importazione è minore, dall’altro non è utile allo sviluppo del mercato indirizzare l’attività produttiva verso un prodotto impedendo la produzione di un altro che avrebbe potuto dare maggiori profitti.

Per quanto riguarda il protezionismo e l’autarchia peraltro, avevano già dimostrato di non essere degli strumenti efficaci di economia politica un esempio potrebbe essere quello del sacro Romano impero di Carlo V 1519-1.556. nessuno stato aveva sino ad allora accumulato tanti quantità di oro ed argento e controllato territori così vasti; il nuovo mondo aveva inoltre fatto entrare in Europa prodotti sconosciuti quali mais, cacao, peperoni ,zucche, patate, fagioli e pomodori. Eppure l’impero non resse: cominciò un inesorabile declino sino alla sua disgregazione e la Spagna rimase in uno stato di arretratezza economica dalla quale ha cominciato a risollevarsi solo pochi decenni or son.

Le cause della decadenza furono la particolare natura chiusa ed autoritaria delle istituzioni spagnole e le barriere al commercio imposte dalla corona che diede in monopolio le tratte trans oceaniche a una corporazione di mercanti di Siviglia. Costoro fecero in modo che la monarchia ricevesse oro e argento e tributi in abbondanza e lì tesaurizzasse o impiegasse in guerra ma impedirono qualsiasi forma di libero scambio. Anzi, la Spagna impose ostacoli anche tra colonie E Colonia. Queste politiche restrittive impedirono Il sorgere di una classe borghese. 

Tutto ciò era ben chiaro anche David Hume ,contemporaneo di Adam Smith ,che nei propri scritti “of commerce” del 1752, “of the balance of trade” del 1752 e “of the jealousy of trade” del 1758, racchiusi in quelli che vengono definiti “discorsi politici” di David Hume demolisce le credenze protezionistiche e mercantilistiche. Il grande filosofo empirista scozzese infatti scrive contro “La gretta e tossica” opinione (doxa) che fa guardare con sospetto lo sviluppo al benessere degli Stati confinanti, basata sull’idea in base alla quale sarebbe impossibile per uno stato essere prosperoso senza danneggiare qualcun altro; egli ritiene che “l’incremento delle ricchezze del commercio di un qualunque nazione, piuttosto che causare un danno, di solito favorisce i paesi limitrofi nell’acquisto di ricchezze di commerci”.

L’esperienza secondo Hume, dimostra che <<dove viene garantita la libertà di scambio tra le nazioni, è impossibile che l’economia interna di ciascun paese non riceveva uno stimolo positivo dai progressi degli altri>>

Di questo Hume aveva avuto un evidenza empirica: prendendo l’esempio dello sviluppo della Gran Bretagna nei due secoli precedenti il filosofo empirista notò che all’inizio la merce è importata dall’estero con nostro grande disappunto perché pensiamo che essa ci privi della nostra moneta ma in un secondo momento le competenze stesse vengono gradualmente importate a nostra evidente vantaggio. In poche parole, viene spazzata via l’erronea convinzione che il commercio serva a tesaurizzare e si spiega così la teoria della concorrenza come diffusione della conoscenza che sarà poi alla base del principio e del pensiero di Friedrich von Hayek.

<<Sono pochi gli inglesi che non pensano che la loro nazione sarebbe completamente rovinata se i vini francesi fossero venduti in Inghilterra talmente a buon mercato da soppiantare tutta la birra e di liquori distillati sull’isola: ma niente sarebbe più innocuo e probabilmente più vantaggioso. Ciascun nuovo acro di vigneto piantato in Francia lo scopo di fornire vino in Inghilterra renderebbe necessario ai francesi l’acquisto del prodotto di un campo inglese coltivato ad avena e Grano per il loro proprio sostentamento: ed è evidente che saremmo noi ad avere la risorsa di maggior valore(teoria dei vantaggi comparativi)>>

A questo segue Smith secondo cui <<è una regola di condotta di ogni prudente Pater familias quello di non cercare mai di fabbricare a casa ciò che costerebbe più fare da soli che comprare. Ciò che è prudenza nella condotta di una famiglia privata non può essere di certo follia nella conduzione di un grande regno>>

° Prendiamo ad esempio un fatto concreto, ripreso dall’avvocato De Nicola: se un paese è più efficiente di un altro -ad esempio – in due produzioni comunque gli conviene specializzarsi in una. Ad esempio poniamo che il Portogallo possa produrre una bottiglia di vino con 5 ore di lavoro ed un chilo di pane con 10 ore punto l’Inghilterra produce la stessa bottiglia in 3 ore e il chilo di pane in un’ora, sembrerebbe allora che all’Inghilterra convenga produrre tutto a casa. Invece il costo del Portogallo per produrre il vino sebbene più alto che in Alpione è più spesso basso rispetto al pane. Però ogni bottiglia prodotta il Portogallo dà via mezzo chilo di pane mentre all’Inghilterra basta un terzo di kg. Pertanto il Portogallo ha un vantaggio comparativo nel produrre il vino mentre l’Inghilterra Lo ha nel produrre il pane. Se Londra e Lisbona scambiano vino e pane uno a uno, il Portogallo convertirà le 10 ore che ci vogliono per produrre il pane per fare due bottiglie di vino. E anche l’Inghilterra ci guadagna perché per importare due bottiglie di vino dal Portogallo in cambio di 2 kg di pane ci dovrà mettere due ore di lavoro mentre per fare una bottiglia di vino ce ne deve impiegare tre e quindi con lo scambio immaginato convertirà le tre ore per sfornare 3 kg di pane e alla fine si troverà con una bottiglia in più perché ne importa due e un chilo di pane in più perché gliene avanza uno. Ecco qui la teoria dei vantaggi comparativi spiegata senza le complesse formule matematiche utilizzate dagli odierni economisti.

  • LE IMPOSTE

Adam Smith considera l’ esistenza delle tasse con realismo: esistono in quanto servono per pagare spese pubbliche imprescindibili per lo stato.

Tuttavia esse devono conformarsi ai famosi 4 principi:

1)Ogni suddito deve contribuire a mantenere il governo in stretta proporzione al reddito

2)L’imposta che ogni individuo è tenuto a pagare deve essere certa e non arbitraria. Tempi modi ed entità del pagamento devono  essere chiari e semplici per il contribuente e per ogni altra persona.

3)Ogni imposta deve essere riscossa nel modo e nel tempo più comodi per ogni contribuente.

4)Ogni imposta dovrebbe essere tale da sottrarre ale tasche del popolo il meno possibile oltre a ciò che fa entrare entrare nel tesoro dello stato.

  • Riguardo alla teoria dei sentimenti morali.

La teoria di Smith (4) si concentra sulla cooperazione nel piccolo gruppo, nel quale le interazioni tra uomini sono dirette e personali mentre la “Wealth of the Nations”( la ricchezza delle nazioni) si occupa della cooperazione nelle relazioni interpersonali di mercato. Questa opera si fonda sull’intuizione secondo cui la vita di relazione organizzata nella società è la natura stessa dell’esistenza umana. L’uomo è dotato pertanto di una immaginazione morale attraverso cui immaginiamo cosa provino gli altri punto La morale si sviluppa nell’interazione con gli altri e cercando delle forme di condivisione con il prossimo secondo l’enunciato io giudico la tua vista attraverso la mia vista la tua ragione attraverso la mia ragione. A fondamento del comportamento umano in tutti i suoi aspetti Smith pone il bisogno di essere amati e amabili cioè l’esigenza di essere rispettati, accettati , stimati , riconosciuti da altri esseri umani, nonché la capacità di osservarsi mediante la prospettiva di uno spettatore imparziale. Grazie a questa capacità di autosservars l’uomo raggiunge una buona condotta naturale che gli fa gestire le passioni. Lo spettatore imparziale è quello che altri filosofi chiamano “la coscienza” e le passioni insane, sono il frutto spesso della solitudine. La società e la conversazione sono i mezzi migliori per raggiungere la tranquillità.

Nella natura umana secondo Smith convivono due principi: la simpatia e l’amor di se stessi. Smith utilizza il termine sympathy per indicare il sentimento di empatia in generale cioè sentire in consonanza con gli affetti di un’altra persona. La simpatia è uno dei principi fondamentali della natura umana al di là del maggiore o minore egoismo dei singoli e su di essa si fonda la possibilità del giudizio etico. In aggiunta, ad fortiori, all’amore di sè Smith riconosce un significato positivo: non è solo egoismo, ma anche la fonte di sentimenti , Nobili ,di grandezza.

Di Daniele Luigi Filippo

Note

1[Adam Smith, La ricchezza delle Nazioni, Libro IV, Capitolo 2]

2Adam Smith , La ricchezza delle nazioni Libro 1, cap. 2.

3Aristotele, La metafisica, tà metà tà fisikà libro I: w ànthropos zoòn politikòn estì

4La teoria dei sentimenti morali, 1759

Bibliografia

Smith, La ricchezza delle nazioni 1776

Smith, La teoria dei sentimenti morali 1759

David Hume, political Discourses, 1752