Sul disegno di legge avente ad oggetto l’introduzione del delitto di “femminicidio”, in Giurisprudenza Penale Web, 2025

Condividiamo e pubblichiamo il contributo del prof. Avv. Vittorio Manes al disegno di legge sul Femminicidio. Il contributo riproduce l’intervento dell’Autore (Prof. Avv. Vittorio Manes) in sede di audizione presso la Commissione Giustizia del Senato, in data 11 giugno 2025, sul disegno di legge A.S. 1433 avente ad oggetto “l’introduzione del delitto di femminicidio e altri interventi normativi per il contrasto alla violenza nei confronti delle donne e per la tutela delle vittime“. https://www.giurisprudenzapenale.com/2025/07/07/sul-disegno-di-legge-avente-ad-oggetto-lintroduzione-del-delitto-di-femminicidio/?fbclid=IwY2xjawLZMiRleHRuA2FlbQIxMQABHj0U3Zy9OQk9fZEAStjsucY4itAMSNJ6kzQrqNw026d7uTJb_BUhqfMx0qDS_aem_Ox8xdH41Io4NwWLR7jU52w


 

Sul disegno di legge avente ad oggetto l’introduzione del delitto di “femminicidio”

 

di Vittorio Manes. 

1. Oggi discutiamo del disegno di legge sul femminicidio, rispetto al quale anticipo subito le mie severe perplessità, sia per ragioni di ordine metodologico che per motivi attinenti alla tecnica legislativa utilizzata.

Anzitutto, suscita perplessità di metodo la tendenza ad affidare – sempre più – al diritto penale un compito di orientamento culturale e sociale, se non di pedagogia morale, che si sostanzia nell’introduzione di fattispecie di reato preliminarmente tese a veicolare un messaggio alla collettività, in chiave comunicativa o simbolica.

Tale tendenza è sempre pericolosa perché affida al diritto penale un compito promozionale che non gli è proprio, giacché lo strumentario punitivo dovrebbe servire come meccanismo di protezione di beni e interessi, e non come veicolo di affermazione di valori culturali.

Per la promozione di valori e la loro diffusione e condivisione servono le politiche culturali e sociali, non reati e pene.

2. Passando alle criticità di merito suscitate dal disegno di legge, occorre anzitutto richiamare i profili sostanziali, pur senza trascurare quelli, altrettanto numerosi, di matrice processuale che, in filigrana, rivelano una sempre più marcata differenziazione processuale, penitenziaria e ordinamentale: si pensi, a mero titolo esemplificativo, alle limitazioni imposte al patteggiamento, all’ulteriore estensione del catalogo – sempre più eterogeneo e criminologicamente inconferente – dell’art. 4-bis ord. penit., nonché al potere di revoca dell’assegnazione attribuito al Procuratore della Repubblica. Indici tutti di un processo penale che pare procedere a “diverse velocità” e distribuire in modo diseguale strumenti e garanzie, in ragione del disvalore dell’ipotesi di reato per la quale si procede, ed ancor più dell’allarme sociale e mediatico che la stessa suscita.

2.1. In ogni caso, tra le perplessità di ordine sostanziale non può sottacersi la forte tensione che questa tecnica di tipizzazione del reato sottende, anzitutto, con il principio di uguaglianza. Tramite il ddl si legittima, infatti, una discriminazione punitiva rispetto a talune categorie di persone e non ad altre.

Tuttavia, la perplessità maggiore concerne la modalità di tipizzazione di questo reato (l’art. 577 bis c.p.), che pare in notevole contrasto con i principi fondamentali che guidano – e che devono guidare – le scelte di politica criminale del legislatore, ossia il principio di tassatività e determinatezza. Perplessità che – peraltro – sono aggravate dalla ricorrenza con cui la nuova fattispecie viene richiamata, in diversi settori, come presupposto per un aggravamento di pena: ricorrenza tanto marcata che in realtà si finisce col tipizzare una fattispecie quasi “di sistema”, in quanto i principali contrassegni di tipicità che ne scolpiscono il disvalore sono replication nell’aggravamento previsto per i maltrattamenti in famiglia, per l’omicidio preterintenzionale aggravato, per l’interruzione di gravidanza non consensuale, per la violenza sessuale aggravata e addirittura per la diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (v. i nuovi artt. 572, 585, 593-ter, 609-ter, comma 1, con inserimento del nuovo numero 5-ter.1, 612-bis c.p.).

Per tipizzare questa peculiare fattispecie, infatti, il legislatore – tanto nel reato di nuovo conio quanto nelle disposizioni aggravanti che la richiamano – ha scelto di ricorrere a concetti come «fatto commesso come atto di discriminazione e di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o comunque l’espressione della sua personalità»: ossia concetti che sono assolutamente indeterminati e, di conseguenza, molto distanti da quei canoni richiesti anche dalla Corte costituzionale nella recente sentenza n. 98 del 2021, ove il Giudice delle leggi ha indicato e imposto corretti canoni di legislazione in materia penale.

2.2. Inoltre, i concetti utilizzati risultano carenti di tassatività anche nel versante processuale della garanzia, giacché si fa riferimento a nozioni insuscettibili di prova in giudizio, di una verifica empirica. Infatti, quando potremo dire di essere di fronte ad un atto omicidiario commesso come atto di discriminazione o di odio? Sempre, probabilmente; o forse, a seconda dell’intuizione di chi dovrà giudicare.

L’utilizzazione di questi concetti così plurivoci, ubiquitari, ambigui, ricorda molto da vicino il reato di plagio che, com’è noto, fu giudicato incostituzionale dalla Corte nel 1981, proprio perché faceva riferimento a elementi non suscettibili di verifica empirica. Ebbene, la nuova fattispecie sembra rievocare questo reato, utilizzando concetti ugualmente insuscettibili di verifica sul piano empirico, sostanzialmente apodittici e privi di affidabili referenti dimostrativi e probatori.

2.3. In questo senso, il rischio maggiore dietro a questa tecnica è che il legislatore, surrettiziamente, “deleghi in bianco” al giudice la verifica di questi elementi. Sarà, infatti, il giudice che dovrà, attraverso un accertamento puramente intuizionistico – se non emotivo – verificare in concreto la presenza o meno di questa gravosissima fattispecie sostanziale – femminicidio ex art. 577-bis – o aggravatrice – in tutte le altre fattispecie. Questo creerà non solo una grave disparità di trattamento a seconda della valutazione particolaristica del singolo magistrato, ma anche una sua notevolissima sovraesposizione. Tutti gli elementi citati, come accennato, sono infatti sostanzialmente indimostrabili – come gli assiomi, i postulati, i dogmi –, sono concetti auto-assertivi. Sennonché, considerato che di fronte a fatti di questa rilevanza si genera sempre una notevole attenzione mediatica, e nella collettività una forte aspettativa di condanne severe e pene draconiane, ogni volta che il giudice negherà la ricorrenza della fattispecie del 577-bis c.p. (o le aggravanti ricalcate su quella matrice), ciò verrà visto come una forma di denegata giustizia e di ciò il giudice stesso sarà additato come responsabile.

3. In definitiva, a noi pare che il nostro attuale sistema penale contempli già risposte molto severe per queste tipologie di condotte: e più in generale, siamo convinti che questi fenomeni – indubbiamente gravissimi, odiosi e capaci di generare un notevolissimo allarme sociale – dovrebbero essere contrastati anzitutto con politiche culturali, sociali, di prevenzione e non attraverso l’utilizzo di una tecnica legislativa demagogica e così distorsiva per le funzioni che il diritto penale dovrebbe avere.

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